Cassazione civile, Sezione III, Sentenza 25 luglio 1987 n. 6457
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati: Dott. Giuseppe LO SURDO Presidente ” Manlio CRUCIANI Consigliere ” Giorgio CHERUBINI ” ” Giovanni E. LONGO […]
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Giuseppe LO SURDO Presidente
” Manlio CRUCIANI Consigliere
” Giorgio CHERUBINI ”
” Giovanni E. LONGO ”
” Gaetano MUGLIA Rel. ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da
MM, elett. dom. in Roma, Via G.B. Vico n. 1 presso l’avv. Franco Lorenzo Prosperi Mangili, rapp. e difesa dall’avv. Onorato Giani per mandato a margine del ricorso.
Ricorrente
contro
NI e NA, elett. dom.ti in Roma, Via E. Manfredi n. 21 presso l’avv. Francesco Salerni che li rapp. e difende un.te all’avv. Giovanni Carlo per mandato a margine del controricorso.
Controricorrenti
Visto il ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Genova del 6.10.-23.10.82 (R.G. 115-80);
Udito il Cons. Rel. dr. G. Muglia nella pubblica udienza del 24.9.86;
Sentito il P.M., in persona del Sost. Proc. Gen., dr. M. Caristo che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
Con citazione del 3.4.78 NA e NI, convenivano AM, locataria di un immobile di proprietà di essi istanti adibito ad albergo, davanti al Tribunale di Sanremo per sentir dichiarare che il canone mensile di lire 225.000 doveva, per contratto, essere aggiornato ogni tre anni e sei mesi in base agli indici Istat sul costo della vita e condannare la convenuta al pagamento del canone così aumentato per il periodo contrattualmente dovuto.
La convenuta resisteva alla domanda.
Il Tribunale di Sanremo con sentenza 22.10.1979 accertava il canone in L. 299.250 mensili ed ordinava il pagamento della integrazione di L. 2.524.500 con interessi dall’1.7.75 alla domanda. Ciò come conseguenza il diritto quesito alla revisione del canone per il periodo anteriore al DL. n. 426 del 1973 che aveva dichiarata l’inefficacia delle clausole di aggiornamenti ISTAT.
Proponeva appello la MM, insistendo nelle eccezioni di incompetenza per valore, di sottoposizione del contratto alla proroga legale, di inopponibilità di scritture non registrate di fronte a scrittura registrata ed al comportamento delle parti nella esecuzione del rapporto, e nella inefficacia in ogni caso delle clausole dopo l’intervento della legge, valida ex tunc.
Resisteva al gravame la parte appellata chiedendo in via incidentale la riforma parziale della sentenza impugnata con la applicazione della clausola ISTAT. La Corte di appello di Genova, con sentenza 6.10.1982, in parziale riforma della sentenza impugnata, determinava il canone dovuto dal 1.7.1975 in lire 4.551.750 quale ammontare dei canoni dal 1.7.1975 al 3.4.78.
La Corte rilevava preliminarmente che il rapporto di locazione tra le parti era regolato dal contratto scritto, senza data e non registrato, stipulato tra i Neri e Teresa Di Giuseppe (dante causa della MM, cui aveva ceduto l’azienda con contratto 21.12.73), essendo la MM subentrata in tale contratto di locazione ai sensi dell’art. 5 della legge n. 19-63, e che, il contratto medesimo, prevedendo una durata settennale (dal 1.1.72 al 1.1.79), scadeva convenzionalmente oltre le proroghe di legge ed era, quindi, esente da esse.
Ne discendeva – osservava la Corte – che nella specie non era applicabile la norma di cui al 4 comma art. 1 D.L. n. 426-73 sull’inefficacia delle clausole di adeguamento del canone al costo della vita, norma che secondo l’insegnamento delle S.U. (sentenza nn. 1923 e 1925-81), va intesa riferita ai soli contratti soggetti alla proroga legale di cui al 1 comma.
Aggiungeva che meritava accoglimento l’appello incidentale dei Neri, nel senso che, a partire dai tre anni e sei mesi di esecuzione del contratto, ossia dal 1-7-1975, il canone andava adeguato come da clausola contrattuale; che poiché l’aumento del costo della vita era stato accertato dall’Istat (tra il gennaio 1972 ed il luglio 1975) nella percentuale del 59,5% il canone di L. 225.000 lire mensili risultava aumentato di 133.875 lire al mese e quindi restava accertato in lire 358.875 mensili; che pertanto la MM doveva essere condannata a pagare, per i 34 mesi accertati dal Tribunale, la differenza di (133.875 x 34) lire 4.551.750 con gli interessi legali sulla somma mensile di 113.875 dalle singole scadenze mensili al saldo; che tale conclusione rendeva irrilevante il secondo motivo d’appello della MM (con il quale costei si era doluta dell’aumento del 33% applicato dal Tribunale per il solo periodo 1-1-72 – 24-7-73) nonché il 6 motivo pure proposto dalla appellante principale con il quale aveva dedotto che l’accoglimento in parte della domanda dei Neri avrebbe configurato una decisione sotto un punto di vista non oggetto di contraddittorio e quindi una forma di ultrapetizione.
Propone ricorso per cassazione la MM deducendo tre motivi di annullamento, a cui resistono con controricorso i Neri. La ricorrente ha depositato memoria.
Diritto
Con il primo mezzo, denunciando la violazione dell’art. 1 D.L. n. 426-73, la ricorrente sostiene che l’ampia formulazione di tale norma e la sua finalità antinflazionistica avrebbero dovuto indurre a ritenere l’applicabilità del divieto a tutte le locazioni, comprese quelle in corso di durata convenzionale, per le quali soprattutto sussisterebbe l’esigenza della tutela contro l’inflazione, trattandosi di canoni recentemente e liberamente pattuiti.
Con il secondo motivo, la MM denuncia l’errata applicazione degli artt. 274, 1362 c.c., e il difetto di motivazione sul rilievo che si sarebbe dovuto riconoscere valore probatorio alla scrittura priva di data e registrazione, prodotta dopo circa 6 anni dai Neri, specie in presenza dei contratti annuali registrati di cui alle denunce verbali provenienti dagli stessi locatori, nonché del comportamento delle parti che avevano ogni anno rinnovato il contratto in forza delle sopravvenienti proroghe.
Con il terzo mezzo, la MM deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. sul rilievo che la Corte di merito sarebbe incorsa nel vizio di ultrapetizione, applicando la rivalutazione Istat oltre il periodo indicato e per di più pronunciando sentenza di condanna di fronte a una richiesta di mero accertamento.
A quest’ultimo riguardo oppone la resistente che le conclusioni di secondo grado si riferivano – per quanto trascritto nell’epigrafe della sentenza – solo al capo oggetto della domanda di riforma in via incidentale ma non era stata mai esclusa la domanda conseguente di condanna.
Trattavasi pertanto non già di ultrapetizione, ma di interpretazione della domanda involgente un giudizio di fatto sottratto all’esame della Corte Suprema.
I tre motivi non hanno fondamento.
La clausola di adeguamento ISTAT del canone di locazione di immobili urbani, inserita in un contratto non soggetto a proroga legale – e pertanto non colpita da inefficacia ai sensi dell’art. 1 comma IV del DL 24.7.1973 n. 495) rimane operativa per tutta la durata del rapporto, dovendosi tenere conto che lo stretto collegamento fra le norme contenute nel decreto n. 426-73 non consente di ravvisare nel cennato quarto comma, in difetto di una espressa manifestazione di volontà del legislatore, l’introduzione di un sistema di blocco dei canoni operante oltre il limite temporale della proroga legale (tra le altre, vedi Cassaz. n. 2621-1983, n. 2524-1983; 247-1982; n. 1923-1981).
Nè a mutare un siffatto indirizzo giurisprudenziale è sufficiente la deduzione secondo la quale le ragioni di natura antinflazionista – che avevano dato vita al provvedimento di inefficacia delle clausole di adeguamento dei canoni diretti a compensare eventuali difetti di svalutazione monetaria – varrebbero per tutti i contratti di locazione, sia per quelli soggetti alla proroga legale sia per gli altri con scadenza convenzionale posteriore alla data di tale proroga. Ed in vero, il solo richiamo alla cennata finalità non era nè sufficiente, – si ripete: in difetto di una espressa manifestazione di volontà del legislatore, – ad unificare un trattamento risultante diverso per la stessa categoria di soggetti a cagione dei tempi diversi di durata del rapporto; più lunga nei contratti a scadenza convenzionale successiva alla data della proroga legale.
Non migliore sorte può essere riservata alla seconda censura.
Nell’ipotesi di cessazione o sublocazione dell’azienda, il cessionario o conduttore subentra – per la durata del rapporto, se di locazione di azienda si tratta – nei contratti in corso, che non abbiano carattere strettamente personale, assumendo l’obbligo di adempierli nei termini ed alle condizioni pattuite dal cedente, titolare dell’azienda salva contraria volontà delle parti (art. 2558 c.c.).
Ne consegue che nell’ipotesi di cessione dell’azienda con contestuale cessione del relativo contratto di locazione dell’immobile siccome adibito allo specifico esercizio di attività commerciale, il cessionario non può opporre al locatore ceduto di avere ignorato, senza sua colpa, gli estremi del rapporto di locazione così come consacrati per iscritto tra il cedente l’azienda ed il locatore ceduto.
Resta pertanto puntuale e corretto il rilievo della Corte territoriale secondo il quale la scrittura privata avente ad oggetto la locazione dell’immobile adibito ad uso “albergo ristorante bar sotto l’insegna Diana”, pur priva di data e non registrata – ma risultante stipulata in data anteriore alla cessione dell’azienda a favore della MM, dal momento che lo scritto prevedeva la decorrenza dal 1.1.1972 – vincolava la cessionaria avendo la cedente prestato “consenso alla voltura di tutti i contratti”, e pertanto facendola subentrare anche nel rapporto siccome disciplinato per iscritto ed instaurato tra i Neri – locatori dell’immobile adibito ad albergo Diana – e la precedente titolare dell’azienda, dante causa della MM stessa.
Nè in contrario vale dolersi che ai fini di individuare i termini e le pattuizioni del contratto di locazione, il giudice del merito avrebbe erroneamente denegato valore di prova in ordine agli estremi del rapporto inter partes, alle dichiarazioni rese annualmente dai locatori in sede di denunzia di contratto verbale di locazione perché costituisce ius receptum il principio secondo il quale non può attribuirsi alle dichiarazioni contenute nella denuncia fatta all’ufficio del registro finalità meramente fiscali, sicché il giudice del merito resta libero di apprezzarne la portata e l’efficacia probatoria raffrontandola con le altre risultanze istruttorie (Cass. n. 2896 del 9.5.1985).
Ogni ulteriore confutazione o tesi resta assorbita per incompatibilità.
Neppure il terzo motivo merita accoglimento.
A fronte della originaria domanda dei Neri inequivocabilmente diretta a far valere la clausola ISTAT, con conseguente condanna della convenuta MM al pagamento delle differenze di canone dovute per il periodo contrattuale, resta pretestuoso sostenere che la Corte territoriale – poiché gli appellati incidentali risultavano avere chiesto nelle conclusioni definitive che venisse dichiarato che il canone di locazione alberghiera era quello “risultante dalla applicazione della clausola ISTAT da calcolarsi fino al 31.12.1973 – avrebbe pronunciato ultra petita, perché – sempre a tesi della ricorrente – i Neri precisando la loro pretesa nei termini sopra riportati non sarebbero incorsi in errore materiale o in una omissione ma avrebbero coscientemente limitato la loro domanda al solo accertamento della valenza della clausola ISTAT “valutando la situazione processuale”.
Senonché per aversi vizio di ultrapetizione occorre che il giudice del merito risulti essersi pronunciato oltre il limite delle pretese o delle eccezioni fatte valere dalle parti o su questioni che non avevano formato oggetto del giudizio o non rilevabili di ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello demandato.
Ciò posto, considerato da un canto che la clausola ISTAT vigente inter partes (canone da aggiornarsi ogni tre anni e mezzo in base agli indici ISTAT) operò una sola volta, e cioè a far tempo dal 1.7.1975, e dall’altro che i Neri avevano introdotto il giudizio proprio per conseguire l’aggiornamento del canone con condanna della MM alla corresponsione delle differenze, correttamente la Corte del merito si è pronunciata – siccome investita in via incidentale – non solo sulla operatività in concreto della clausola ISTAT ma anche sulla connessa condanna al pagamento della maggior somma maturata medio tempo avendo inteso tale ultima pretesa, pur non espressamente riformulata in sede di gravame, implicitamente contenuta nel motivo di appello incidentale, perché pretesa in rapporto di necessaria connessione con l’oggetto del giudizio e correlata nello svolgimento del contraddittorio sulle questioni controverse.
Trattandosi di impugnazione incidentale proposta dalla parte parzialmente vittoriosa sull’an e sul quantum in primo grado, il relativo gravame, pur nella non puntuale formulazione delle richieste finali, non poteva essere inteso se non nel senso ritenuto dalla Corte di appello.
La sentenza impugnata si sottrae pertanto alla Cassazione perchè esente da errori giuridici ma anche immune da vizi di motivazione su punti decisivi della controversia, tali cioè che se diversamente considerati avrebbero potuto portare virtualmente ad una decisione di segno opposto o diverso.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alle spese in L. 11.000 oltre a L. 600.000 per onorari.
Così deciso il 24.9.1986.